A.R.C.A. & Pro Loco Asciano
Vi presentano….
Parole di Enzo Magini tratte da
“La Querce del Boscarello“
NELLA CANTINA
Si cominciava a cogliere l’uva, a vendemmiare, nella prima quindicina del mese di ottobre nelle vigne, di superficie più o meno estesa, che ogni podere aveva.
Prima di cominciare a vendemmiare, tutti i “vasi”: tini, botti, “bigonzi” (bigonci) e barili, dovevano esser “bagnati”, cioè portati a tenuta stagna, a non perdere (a non versare il mosto o il vino che avrebbero dovuto contenere). Per questo motivo era necessario bagnarli abbondantemente con l’acqua del pozzo, per qualche giorno, fino alla completa stagnatura. Erano infatti, tutti quanti costruiti con delle tavole di legno (le doghe), tenute a contatto, l’una con l’altra, da dei cerchi di ferro o di legno. Quando il vaso rimaneva vuoto per un certo periodo, le doghe si “allentavano”, cioè si allontanavano leggermente, le une dalle altre, nelle superfici di contatto. L’umidità, conseguente alla bagnatura, faceva “rigonfiare” il legno delle doghe, riportandole al perfetto contatto fra loro.
Durante la vendemmia, il contadino doveva poi caricare i bigonsi pieni d’uva nel carro e portarli, sia nella propria cantina che in quella del padrone, in fattoria, dove c’erano botti e tini molto capienti, dovendo contenere l’uva di tutti i poderi della tenuta. Botti e tini potevano essere alte 3-4 metri, ed avere un diametro di 2-3 metri, si trovavano sopra ai “vaggioli, o sellini”, dei muretti di mattoni alti circa mezzo metro dal pavimento, costruiti lungo i lati della cantina, sui quali poggiavano delle travi di legno. Per raggiungere la parte superiore del tino o della botte, dove veniva vuotata l’uva ammostita, era necessario salire una scala di legno, composta da diversi scalini con il bigonso, quasi pieno d’uva, caricato sopra ad una spalla. C’è da considerare, che ogni bigonso pieno, pesava una cinquantina di chili. Un lavoro, anche questo, molto faticoso e pericoloso. L’uva rossa ammostita, rimaneva” a bollire” (a fermentare), nelle botti e nei tini, per 5-6 giorni. Ogni sera doveva essere ancora ammostita con il mosticchio e, per quella contenuta nei tini, anche con i piedi scalzi. Il mosto in ebollizione emanava una intensa ed inconfondibile fragranza, che si spandeva in cantina e nell’area esterna circostante. Emetteva anche anidride carbonica, che si avvertiva avvicinandoci il naso, oppure un fiammifero o una candela accesi; la mancanza di ossigeno li faceva subito spegnere. Quando il cantiniere, l’addetto alla cantina, giudicava terminata la prima fase della fermentazione, il vino veniva tolto dalla botte o dal tino, con una cannella di rame, separandolo così dalla vinaccia, che rimaneva nel fondo del recipiente. Con un barile, portato sulle spalle, il vino veniva messo in altre botti, facendolo passare attraverso “l’imbottatoia”: una specie di imbuto rettangolare, di legno, foderato di rame. Il rame aveva la proprietà di togliere al vino l’odore di zolfo. Era questa l’operazione chiamata: la “svinatura”.
Le botti riempite con il vino nuovo, che ancora continuava a bollire, non venivano chiuse con un tappo di sughero, ma con un colmatore o bollitore, di vetro. Il colmatore permetteva al “gas” che si liberava a seguito della bollitura, di gorgogliare nell’acqua contenuta nella sua parte superiore e di poter vedere la variazione del livello del vino. Il vino nuovo infatti, continuando a bollire, si “spogliava” delle impurezze, che andavano a depositarsi sul fondo della botte, formando la così detta “fondata”. Questa depurazione determinava una diminuzione del livello del vino, che la trasparenza del colmatore faceva vedere, di modo che, il cantiniere, potesse provvedere a rabboccarlo (a riportarlo al giusto livello).
Nella vinaccia rimaneva una certa quantità di vino, che veniva recuperato pressandola con un torchio “lo strettoio”. Il vino ottenuto, era chiamato “vino stretto” per distinguerlo da quello “chiaro” (meno torbido), svinato dal tino o dalla botte. I due tipi di vino potevano essere mescolati, oppure separati. Una parte della vinaccia che rimaneva, dopo la strettura, era utilizzata per fare l’acquarello, un vinello di colore rosso chiaro, di bassa gradazione. Si otteneva facendo fermentare, per qualche giorno, in una botte, la vinaccia con l’aggiunta di acqua. Le famiglie contadine ne facevano uso nell’autunno e nell’inverno, risparmiando così il consumo del vino, che non sempre bastava per tutto l’anno.
Dall’uva bianca, prodotta in quantità minore rispetto a quella rossa, si ricavava, dopo una breve fermentazione, il vino bianco che, fermentando insieme alla buccia degli acini, prendeva una colorazione giallo oro. Con il passar del tempo e l’evoluzione delle conoscenze, anche i contadini, cominciarono a far fermentare il solo mosto di uva bianca, ottenendo un vino con una colorazione giallo chiara, che chiamavano: “il vino vergine”. Una parte dell’uva bianca, quella di migliore qualità, specialmente di malvasia e di trebbiano, veniva scelta, durante la vendemmia, lasciando le zocche, attaccate ad un pezzetto di tralcio della vite. Si facevano i pendoli, che venivano attaccati al soffitto di una stanza e lasciati, in quella posizione, fino a dicembre inoltrato.
In questi due mesi, gli acini dell’uva appassivano ed aumentavano sensibilmente la parte zuccherina. Nei giorni precedenti la festività del Santo Natale, i pendoli venivano staccati, e l’uva ammostita nei bigonzi. Si otteneva un mosto, di colore marrone chiaro, molto dolce che, stringendolo con lo strettoio, veniva separato dalla vinaccia. Con quel mosto, lasciato “decantare” (spogliarsi lentamente delle parti sospese), per almeno tre anni, in una piccola botte, chiamata “il caratello”, insieme ad una buona “madre”, si otteneva il vin santo. Nel mese di gennaio o in quello di marzo, il vino rosso doveva essere “tramutato”, cioè tolto dalle botti dove era stato messo dopo la svinatura. In questi mesi, il vino subiva un lento processo di decantazione, che da torbido lo faceva diventare chiaro, lucente, liberandosi delle sostanze colloidali che conteneva. Queste sostanze si depositavano nel fondo della botte, formando la “fondata” che non veniva butta via, ma distillata, per ricavarci la grappa. Con la grappa ottenuta si riempivano solo poche bottiglie, che venivano custodite gelosamente. La grappa era usata per correggere il caffè d’orzo o quello di chicco, per mettere le ciliege sotto spirito, per farci il nocino.
I contadini, producevano in proprio, anche l’aceto, sia rosso che bianco. Tutte le volte che infiascavano il vino, togliendolo da una damigiana, mettevano quello torbido (il vino a contatto con la fondata) nel “barlozzo”, una piccola botte, simile al caratello del vinsanto, riempendolo però, fino a metà. Il barlozzo era chiuso con un piccolo coperchio di legno, di forma quadrata o rettangolare. L’ ossigeno dell’aria rimasta dentro al barlozzo, con il passar del tempo, faceva prendere al vino, lo spunto, “il foco”, come dicevano i contadini, trasformando l’alcool in acido acetico.
ALL’OLIVIERA
Diverse fattorie avevano un’oliviera in proprio, solitamente al piano sopra dell’oliviera venivano stese le olive raccolte, quando il pavimento della stanza era stato quasi tutto ricoperto, e lo strato aveva raggiunto un notevole spessore, le olive venivano calate al piano inferiore attraverso un tubo che le convogliava in una vasca. La prima fase della spremitura prevedeva il lavoro con la macina, formata da una grossa ruota di granito, fatta girare da diversi uomini che spingevano una “stanga” (un’asta di legno), collegata alla ruota. Successivamente, un ciuco (un asino), prese il posto degli uomini; l’asino poteva avere in una stanza accanto il proprio giaciglio per il riposo.
La rotazione della ruota, provocava lo schiacciamento, la frangitura delle olive, formando una pasta (la pasta di olive), di colore marrone-violaceo, formata dalla polpa dell’oliva a dai frammenti del nocciolo.
Quella pasta veniva stesa su dei pannelli circolari, con un foro al centro, fatti con una grossa corda intrecciata, che poi venivano messi nello “strettoio” (il torchio), una sopra l’altro, interponendo, fra di loro, un pesante disco metallico. Anche la pressatura (la spremitura), veniva fatta a mano, con le braccia dei contadini, tenuti a fornire aiuto quando si dovevano “fare” (lavorare), le olive del loro podere.
Dalla spremitura si otteneva la sansa, che rimaneva sopra il pannello, ed un liquido, di colore marrone, composto da acqua ed olio. Non essendoci ancora la centrifuga, che in seguito avrebbe permesso una rapida separazione dell’olio dall’acqua, questa operazione si faceva, mettendo la miscela acqua-olio, in una conca, un recipiente in terracotta, di forma troncoconica rovesciata. L’olio, più leggero dell’acqua (peso specifico minore di 1), con il passar del tempo, si stratificava in superficie, dando la possibilità, alle abili mani del “capunto”, una persona che ben conosceva il mestiere, di separalo dall’acqua. Lo faceva usando una specie di piatto di metallo, provvisto di un manico, che permetteva di prendere solo l’olio che “galleggiava” sopra l’acqua. Facile a dirsi, ma difficile a farsi.
Diviso a metà con il padrone, l’olio veniva portato a casa, mettendolo dentro a dei barili, più piccoli di quelli usati per svinare e, da questi, vuotato negli “ziri” (gli orci o giare), anch’essi in terracotta.
IL FORMAGGIO
Con il latte, munto due volte al giorno, i contadini facevano, in proprio “il cacio” (il formaggio pecorino) e la ricotta. Li preparavano in una stanza, che si trovava vicino a quella dove venivano tenute le pecore, detta “la stanza del cacio”. Un uomo o una donna, che avevano imparato i segreti del mestiere dai loro genitori o dai nonni, erano gli addetti a fare il cacio e la ricotta. Erano i “casari”, della famiglia, si direbbe oggi. Lo facevano servendosi di un grande paiolo di rame, “il paiolone”, dove veniva riscaldato il latte, appena munto, con l’aggiunta del caglio vegetale, ricavato dall’infuso dei fiori, fatti seccare, dei “presuri”, cardi selvatici, simili ai carciofi che, spontaneamente, potevano crescere vicino ai poderi.
La ricotta veniva consumata fresca ed una parte mandata in Fattoria. Era, di solito, una ragazzina, ricambiata con un bel vestitino, che veniva mandata a portarla nella cucina padronale, ricevendone in cambio, qualche volta, delle caramelle, delle mentine o un biscotto, di quelli conservati nelle scatole.
In alcune famiglie veniva fatto anche il ravaggiolo, un formaggio bianco, tenero, dal sapore dolciastro, tipico della tradizione contadina, ottenuto dal latte crudo, riscaldato vicino al fuoco del focolare, con l’aggiunta del caglio vegetale naturale.
Le forme di pecorino potevano essere consumate fresche o fatte stagionare, sopra delle, o dentro a degli “ziri” (orgi o giare), con le foglie di noce, messe sopra e sotto ad ogni forma. Durante il periodo di stagionatura, che poteva protrarsi anche per più di un anno, le parti superficiali delle forme, venivano spazzolate ed “untate” (strofinate) con la “morca” (la fondata dell’olio) oppure con il succo di pomodoro o con la vinaccia. I diversi tipi di copertura davano alle forme, un colore nerastro, oppure rosso chiaro o scuro.